Riflessioni sulla Corporate Entrepreneurship

 In Bridgemaker, Business, Design

La mia esperienza professionale mi ha portato a lavorare in diverse aziende, prevalentemente in ambito consulenziale / sviluppo business in ambito IT, di diverse dimensioni e con diversi mindset degli imprenditori / manager che le governavano. Ho lavorato in aziende multinazionali , quindi strutturate e con processi ben definiti anche se in continua revisione in quanto è un mercato altamente competitivo, fino ad arrivare ad aziende di piccole dimensioni (10-15 persone). Ho poi avviato delle startup. Nella mediana di questo percorso ho lavorato in aziende che hanno avuto o voluto avere percorsi di evoluzione – espansione in pura ottica di crescita del fatturato e della quota di mercato.

Su queste tipologie di azienda concentrerò le mie riflessioni sulla Corporate Entrepreneurship.

La premessa è che ritengo che la Corporate Entrepreneurship sia in teoria un formidabile strumento che potrebbe , se ben applicato, rivoluzionare il modo di fare azienda. Il coinvolgimento del singolo dipendente, manager o C-level in un ottica di “diventare imprenditore” (per l’impresa e dentro l’impresa) piuttosto che un semplice “dipendente” può arrecare svariati benefici alla performance dei singoli e quindi del gruppo. Una mentalità “risk taking” inserita all’interno di un framework organizzativo che preveda un alto livello di Social Support e Performance Making in un contesto poi di funzione di innovazione dotata di un proprio Chief Officer con un budget dedicato e non dipendente dalle linee di business può produrre risultati concreti e interessanti.

Le mie esperienze però non sono state caratterizzate da questi paradigmi, pur se la finalità dell’azienda erano quelle di innovare la propria linea di business, far crescere fatturato e marginalità, espandersi.

Qui di seguito la descrizione di due mie esperienze “sul campo” con relativi commenti:

Azienda 1 era nel 2010 una software house umbra con un ERP proprietario dedicato alla PMI, basato su tecnologia Microsoft. Ha perseguito nel tempo una politica di acquisizioni di altre società in ambito software, tra le quali una società più grande e nota con un ERP basato su AS400 molto diffuso nelle PMI fascia alta. A questa operazione di acquisizione e tentativo di “fusione” tecnologica dei software, con uno sguardo alla portabilità su ambienti cloud che ai tempi stava iniziando ad emergere, non è seguita nessuna politica organizzativa volta a coinvolgere i nuovi dipendenti, quelli già a bordo anche in un ottica di Corporate Entrepreneurship. L’imprenditore ha seguito il classico schema di chiusura nei confronti delle persone provenienti da altre entità creando un proprio “cerchio magico” dove ragionamenti, esperimenti e strategie erano frutto delle pensate dello stretto gruppo di collaboratori. Questa poteva essere un ottima occasione di applicazione dei paradigmi della CE, approfittando dell’arrivo di nuove risorse e nuove conoscenze, ma il delegare il potere a gruppi di “innovatori” è risultato impossibile.

Le acquisizioni sono poi continuate ma non in un ottica di integrazione ma puramente finanziaria e non è mai stata attuata una minima strategia di CE, fino a quando la struttura operativa e conseguentemente finanziaria è collassata.

L’azienda avrebbe dovuto secondo me adottare della soluzioni di CE da subito, insieme alle acquisizioni, quindi:

  • Definire una struttura di innovazione / integrazione delle varie soluzioni;
  • Nominare dei responsabili per l’innovazione per ogni BU;
  • Definire obbiettivi di performance per i gruppi di lavoro e creare il giusto “Social Support”;
  • Attuare dei cicli di misurazione delle performance di vendita su determinate soluzioni/prodotti basati anche su MVP
  • Instaurare procedure di dialogo con la proprietà e i C-Level per renderli sponsor dell’iniziativa, non solo del fatturato.

Azienda 2: E’ un azienda in ambito consulenza IT, non proprietaria del software ma con attività consulenziale di supporto all’implementazione e al supporto di progetti in ambito SAP.

Spesso in questo tipo di realtà il concetto di “crescita” non è di fatto definito a livello strategico nel senso di mission, direzione strategica, piano industriale, ma come indicatore primario crescita di fatturato (neanche di marginalità..) e conseguentemente di risorse, in quanto le revenue derivano esclusivamente dalla consulenza.

La mancanza di  strategia e di vision accompagna appunto tale “crescita”. Viene instituito un progetto interno suddiviso in “progetti pilota” nei vari ambiti organizzativi (vendite, delivery, etc) dove partecipano gruppi di dipendenti uno dei quali è il responsabile.

Il tutto viene indirizzato sempre con un obbiettivo numerico sul fatturato e le risorse.

Il risultato ad oggi è che tutte le proposte organizzative “disruptive” necessarie a raggiungere questi obbiettivi sono state di fatto accantonate, perché la proprietà non vuole uscire dalla sua “confort zone” fatta di meccanismi di controllo e governance che poco si discostano da quelli che aveva dalla sua nascita.

Ho citato questo esempio perché io credo che un solo modello di “Corporate Entrepreneurship” potrebbe far evolvere questo tipo di azienda di tipo sostanzialmente padronale, che è molto diffuso in Italia.

La responsabilizzazione dei dipendenti con obbiettivi e task specifici in ottica imprenditoriale, l’incoraggiare il risk taking invece che favorire i comportamenti “di branco” tipico di queste aziende, il forzare la proprietà ad uscire dalla propria “Confort Zone”, imparando a delegare veramente  a veri responsabili  e soprattutto la fiducia che deve essere accordata, questi sono gli elementi che sarebbero necessari a favorire un clima ed un framework di Corporate Entrepreneurship anche in questo caso, molto diverso dal caso precedente per alcuni versi (politica di acquisizioni nel primo caso, scenario “Not invented Here” nel secondo caso) ma entrambi simili nel non saper delegare e quindi rischiare, elementi essenziali in una strategia di Corporate Entrepreneurship.

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